Tavola rotonda SICESE-Fondazione Agnelli sulla formazione degli insegnanti

17 Marzo 2021 Off Di SICESE

Tutte le ricerche e le indagini internazionali, alcune di carattere comparativo, convergono nello stabilire una correlazione diretta tra la qualità professionale degli insegnanti e la qualità dei risultati conseguiti dagli alunni e dai sistemi educativi nel loro insieme. Per questo i temi della formazione iniziale e delle modalità di accesso alla professione dei docenti dovrebbero ricevere un’attenzione prioritaria da parte dei decisori politici. “Dovrebbero” perché solo in alcuni Paesi questo avviene, in altri no. L’Italia fa parte di questo secondo gruppo soprattutto per quanto riguarda gli insegnanti di scuola secondaria di primo e secondo grado e, almeno per le modalità di reclutamento, anche quelli di scuola primaria e dell’infanzia. 

Delle ragioni che hanno portato all’attuale situazione e di che cosa si dovrebbe fare per modificarla si è discusso il 12 marzo 2021 in una tavola rotonda online, promossa congiuntamente dalla SICESE (Sezione Italiana della Comparative Education Society in Europe) e dalla Fondazione Agnelli, che ha preso le mosse dal volume collettaneo “Idee per la formazione degli insegnanti” (FrancoAngeli, 2020), curato da M. Baldacci, E. Nigris e M.G. Riva. Alla tavola rotonda hanno preso parte due dei coautori del volume, Carlo Cappa (presidente della SICESE) e Andrea Gavosto (direttore della Fondazione Agnelli), e nel dibattito sono intervenuti, dopo i saluti di Giorgio Adamo, direttore del Dipartimento di Storia, Patrimonio culturale, Formazione e Società dell’Università di Roma Tor Vergata, altri docenti di quest’ultimo ateneo (Donatella Palomba, Valentina D’Ascanio, Orazio Niceforo), Andrea Lombardinilo (Università di Chieti-Pescara) – tutti soci della SICESE – e inoltre Riccardo Scaglioni, presidente ANFIS (Associazioni Nazionale Formatori Insegnanti Supervisori) e Maddalena Gissi, segretaria generale della Cisl scuola. 

Pubblichiamo qui di seguito una breve riflessione di Andrea Gavosto e il testo del contributo di Orazio Niceforo, vicepresidente SICESE. Nei prossimi giorni, si darà spazio ad altri contributi, considerando il tema di vitale importanza per il futuro del nostro sistema d’istruzione. 

Si riportano di seguito i link della registrazione della tavola rotonda (https://vimeo.com/526003212/b3de65b0d2) e del contributo del Dott. Scaglioni che, per motivi tecnici, è stato registrato di nuovo separatamente (https://youtu.be/VyD_bIdqVHI).

Andrea Gavosto 

La formazione dei docenti è un nodo critico del nostro sistema scolastico. Recentemente la Fondazione Agnelli ha pubblicato il primo di una serie di studi, condotti insieme all’Invalsi e basati sull’osservazione diretta, per tre volte, di 1.600 docenti di Italiano e Matematica, alla fine della scuola primaria e in prima media. Dallo studio emerge che circa un 15% degli insegnanti osservati non è in grado di fornire agli allievi una spiegazione strutturata adeguata, ovvero l’elemento base di qualunque strategia di insegnamento; per contro, il 25% lo fa in maniere eccellente, mentre oltre il 50% rimane in una “zona grigia”, in cui le metodologie didattiche sono perseguite senza infamia e senza lode. È evidente che la condizione per migliorare gli apprendimenti degli studenti è che anche i docenti che si collocano in questa ampia area intermedia imparino a insegnare a livelli di eccellenza. Le indagini internazionali, a partire da Talis dell’Ocse, ci confermano del resto che gli stessi insegnanti italiani giudicano la loro preparazione disciplinare sufficiente, mentre ritengono quella didattica palesemente inadeguata.  

Per migliorare la qualità della didattica nella scuola occorre quindi lavorare su tre fronti:  

1. Il reclutamento: oggi il sistema di selezione dei docenti attraverso i “due canali” non è più in grado di soddisfare il fabbisogno delle scuole in sempre più materie e aree territoriali, riuscendo a colmare meno del 50% dei posti di ruolo offerti e creando un esercito di oltre a oltre 200.000 docenti a tempo indeterminato.  

2. La formazione iniziale, che è stato l’oggetto del convegno Fondazione Agnelli – SICESE. Nel giro di un decennio i percorsi di formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria sono cambiati drammaticamente: siamo passati dalle SSIS, abolite forse troppo frettolosamente, ai TFA, al FIT, che di fatto non ha mai visto la luce, e infine al (quasi) nulla attuale, dato dai 24 CFU in ambito antropo-psico-pedagogico. È evidente che in questo modo il miglioramento delle pratiche didattiche in aula rimane un miraggio. 

3. Formazione in servizio. Anche in questo caso assistiamo a un’anomalia italiana. Negli altri paesi, aggiornamento e formazione in servizio dei docenti sono obbligatori o, comunque, fortemente incentivati; da noi, nonostante che sulla carta la formazione sia stata resa obbligatoria dalla L.107 del 2015 (Buona scuola), il CCNL ha di fatto depotenziato la norma di legge. Anche in questo caso, i docenti dovrebbero essere indotti a migliorare le loro strategie didattiche attraverso corsi universitari, formazione tra pari e mentoring da parte di colleghi più esperti. 

Pensare la formazione iniziale degli insegnanti
Carlo Cappa


Per la SICESE, l’incontro si colloca all’interno di una solida continuità che ha visto, negli anni, l’organizzazione di diverse attività convegnistiche e seminariali, producendo volumi dal respiro internazionale. L’educazione comparata, in Italia in modo non difforme da ciò che è avvenuto all’estero, ha infatti frequentemente eletto a “unità di comparazione” la dimensione nazionale, indirizzando la sua attenzione ai sistemi d’istruzione nel loro complesso.

In tale cornice, l’occasione si è voluta quale confronto tra voci differenti, ciascuna capace di portare un contributo attraverso la sua specificità. Nella mia veste di presidente della SICESE e in accordo con il direttore della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, si è ritenuto utile proseguire il dibattito in questo spazio, tenendo vivo quell’invito al dialogo tra posizioni differenti, nella convinzione che un tema come quello della formazione insegnanti non possa che essere oggetto di mediazioni tra istanze plurali.

In queste poche righe, desidero soprattutto proporre tre punti che ritengo preziosi per condurre una riflessione critica che sia tanto in grado di svincolarsi da facili luoghi comuni, quanto di avere un respiro ampio, liberandosi dalla necessità di rincorrere emergenze o affrettate disposizioni di legge.


1) Il coinvolgimento di scuola e università. La formazione iniziale degli insegnanti, infatti, non può e non deve essere oggetto di progettazione in campi separati come, spesso, avviene ora nell’insufficiente PF24. Una formazione specialistica sulle discipline, una forte competenza pedagogica e didattica e forme di tirocinio che possano, assieme, mettere in atto, approfondire e calibrare le conoscenze teoriche: questo è un impianto irrinunciabile che deve prevedere una collaborazione sia nel momento progettuale sia nel momento di svolgimento del percorso. Naturalmente, scuola e università non possono non avere un’interlocuzione costante con i decisori politici, ricordando quanto nella nostra tradizione il sistema d’istruzione sia parte integrante dello Stato e come debba esservi un forte richiamo a tale responsabilità dei nostri rappresentanti istituzionali.


2) Uno sguardo capace di pensare il locale senza dimenticare il quadro internazionale. Specie per quanto concerne la formazione iniziale degli insegnanti delle scuole secondarie di I e II grado, l’attuale anomalia della situazione italiana, oltre a stridere con tutte le indicazioni della comunità scientifica, risulta disallineata rispetto a ciò che è praticato negli altri paesi europei. Ragionare senza tener conto che l’Italia è inserita in un dinamico contesto internazionale che, per l’università, è articolato grazie allo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore, significa dimidiare il dibattito e le prospettive di sviluppo caldeggiate. Collaborazione, armonizzazione e competizione sono dimensioni che oramai fanno stabilmente parte della riflessione in ambito educativo; certo, una sensibilità comparativa deve essere conscia dei trabocchetti insiti in arraffazzonate giustapposizioni tra tradizioni e contesti diversi, ma resta fondante per prospettare soluzioni capaci di rispondere alle attuali sfide. La SICESE non ha mai lesinato il suo impegno, mantenendo una decisa centralità pedagogica, ma aprendosi sistematicamente ai contributi di ambiti affini, tra i quali ha giocato un ruolo principe la sociologia.


3) Un robusto senso della misura. È questa una maniera sempre raccomandabile per rapportarsi alla complessità degli argomenti di dibattito, ma risulta ancora più preziosa quando ci si confronta con temi tanto ampi e sfaccettati come la formazione iniziale degli insegnanti. Troppo spesso e, purtroppo, anche attualmente, le parti in campo si contrappongono frontalmente, ripetendo in modo sterile le proprie convinzioni, senza un reale ascolto di quelle altrui, ridotte a ostacoli da aggirare o eliminare.
Molto tempo fa, Montaigne affermava che «La parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che l’ascolta»: sarebbe dunque auspicabile tener sempre presente quanto la politica educativa, come la politica tout court, sia conciliazione e compromesso, un equilibrio nel quale ogni alta idealità deve essere temperata dalla vigile coscienza del carattere infantile e sterile di qualsivoglia pretesa di detenere l’unica vera ricetta degna di considerazione.

Verso un sistema educativo postscolastico

Orazio Niceforo

Nello svolgimento della tavola rotonda, due punti, tra i numerosi in discussione, sono emersi con forza. Il primo: la preparazione applicata nella formazione iniziale dei docenti italiani di scuola secondaria – nello specifico, il tirocinio in classe – che, da alcune voci, è parsa carente rispetto alla preparazione teorica, differentemente da quanto accade per gli insegnanti di scuola primaria e dell’infanzia. Il secondo: il reclutamento, per il quale, in Italia, a volte, purtroppo, è considerata prioritaria la dimensione sociale a detrimento di quella professionale, rischiando di determinare un quadro nel quale l’occupazione, conseguita per via legislativa o contrattuale, viene prima di tutto e la qualità della preparazione degli insegnanti viene dopo. E la formazione in servizio, obbligatoria in altri Paesi, mai (anche se la legge 107/2015, la ‘Buona Scuola’, ne aveva previsto l’obbligatorietà). 

Che cosa fare per porre rimedio a una situazione che vede la scuola italiana galleggiare da tempo al di sotto delle medie internazionali rilevate dalle indagini internazionali (quelle della IEA e quelle dell’OCSE) relative alle prestazioni degli alunni nei principali campi di apprendimento (lettura, matematica, scienze)?  

Al netto delle riserve avanzate da molti (anche dalla SICESE) sulla comparabilità tra sistemi profondamente diversi per ragioni storico-culturali, e sulla validità dei test come strumenti di valutazione delle performance, non c’è dubbio che i dati raccolti dalle suddette indagini, confermati in larga misura anche dall’esito delle prove nazionali Invalsi, segnalano non solo la mediocrità della preparazione dei nostri studenti nel loro insieme ma anche fortissime disparità territoriali tra Nord e Sud e per tipologia di studi seguiti, con i licei delle grandi città in testa e gli istituti professionali in coda. Per non parlare del dramma della dispersione, esplicita e implicita, che colpisce soprattutto il Sud. Quanto influisce la preparazione dei docenti su questi risultati?  

Dai tempi della Lettera a una professoressa di don Milani (1967) e de Le vestali della classe media (Barbagli-Dei, 1969), ricordati oggi da Donatella Palomba nel suo intervento, il dibattito sul ruolo sociale dei docenti è aperto. Il ritardo e le contraddizioni delle riforme scolastiche hanno grandemente contribuito a non esplicitare tale ruolo che è rimasto ambivalente, sospeso tra la funzione di riproduzione del capitale umano in chiave selettiva e quella di promozione dei giovani in chiave inclusiva. Quella che è mancata (tranne che nella legge 517/1977, che ha abolito i voti e le classi speciali, e in parte nel DPR 275/1999 sull’autonomia scolastica) è stata una chiara indicazione politica sulla finalità fondamentale delle riforme, cui collegare una coerente formazione iniziale e in servizio dei docenti.  

Alla mancanza di una progettualità riformatrice forte ha corrisposto, sul versante del trattamento dei docenti, un atteggiamento attendista, che ha addirittura fatto passi indietro sulla formazione iniziale, sopprimendo prima la SSIS, poi il TFA, poi la FIS, insomma tutti i tentativi di arricchire la professionalità specifica degli insegnanti di scuola secondaria prima del loro reclutamento. E che ha ridotto il reclutamento a ripetute e rassegnate assunzioni di massa dei cosiddetti precari, senza il cui apporto, peraltro, la scuola non avrebbe potuto funzionare. 

I sindacati, che in altri momenti della loro storia (150 ore, gestione sociale della scuola) avevano svolto un ruolo di avanguardie dell’innovazione, si sono progressivamente chiusi nella ordinaria amministrazione, nella ricorrente stabilizzazione di generazioni di precari e nella difesa di uno stato giuridico forse garantista ma costantemente appiattito su un mediocre ugualitarismo, che ha finito per trattare nella stessa maniera chi lavora poco e male e chi molto e bene. Certo sarebbe forse riduttivo considerare i sindacati i maggiori “responsabili della dequalificazione della figura dell’insegnante”, come sostiene da tempo Ernesto Galli della Loggia, anche se è difficile negare che, anche al di là delle intenzioni, essi abbiano contribuito – con poche differenze tra le varie organizzazioni – alla ingessatura di questa figura (l’espressione è di Luisa Ribolzi,) operando di fatto in senso conservatore. In realtà all’origine della dequalificazione dei docenti va posto lo scarso peso assegnato all’istruzione nelle scelte fatte negli ultimi decenni da tutte le forze politiche che si sono avvicendate alla guida del paese, che hanno considerato la scuola più come un terreno di scambio elettorale che come un motore per lo sviluppo del Paese. 

La questione della formazione iniziale e continua dei docenti costituisce una sfida per il governo Draghi, che sull’istruzione ha giocato una delle carte più importanti in occasione del suo insediamento, e per il ministro Bianchi. Entrambi si mostrano consapevoli dell’importanza strategica dell’investimento nel capitale umano, ma il successo di questo investimento dipenderà in larga misura dalla qualità professionale dei principali attori chiamati a gestirlo, gli insegnanti.   

Qualche considerazione di carattere più generale va fatta peraltro sulla particolare condizione nella quale si trovano oggi i sistemi educativi, non solo in Italia. Rispetto a poco più di un anno fa, quando l’Università di Roma Tor Vergata ospitò un primo confronto a più voci sul tema della formazione e reclutamento degli insegnanti (24 febbraio 2020), i sistemi scolastici di tutto il mondo sono stati sottoposti a uno stress che non ha precedenti nella storia, e che per l’importanza delle conseguenze, che aprono una nuova fase storico-culturale nella trasmissione del patrimonio culturale da una generazione all’altra, può essere paragonato all’invenzione della stampa, e prima ancora della scrittura. Dal punto di vista della comunicazione educativa la pandemia è uno di quegli eventi che l’economista Joseph Schumpeter definiva di “distruzione creativa”. Distruzione della scuola come si è configurata negli ultimi due secoli e mezzo, a partire da Federico II di Prussia e Napoleone, fatta di edifici dedicati, aule, classi, orari rigidi e discipline separate. E nascita di un modello educativo postscolastico, nel quale il processo educativo si svolge a scuola, a casa e ovunque, le aule e le classi sono aperte, gli orari e i tempi dell’apprendimento sono flessibili e personalizzati, gli oggetti di apprendimento interdisciplinari. 

Il massiccio e generalizzato ricorso alla didattica a distanza (DAD) nelle scuole di tutto il mondo costituisce un’anticipazione di questa nuova fase, che con il progressivo passaggio online di parti della didattica assumerà sempre più una configurazione mista, hybrid, multidimensionale anche dopo che la conclusione definitiva della pandemia in corso avrà consentito di riaprire le aule scolastiche.  

Sarebbe un pesantissimo errore quello di considerare la DAD e ancor più la Didattica Digitale Integrata (DDI) come un rimedio emergenziale, da dismettere a pandemia finita, perché solo la scuola digitale, con la sua flessibilità, si presta alla personalizzazione degli itinerari formativi individuali e a risolvere problemi come quelli del sostegno individualizzato (per tutti, non solo per gli alunni con disabilità), della didattica per gruppi e per competenze, della valorizzazione dei potenziali e delle attitudini di ciascun alunno. 

Coloro che si stanno formando per diventare insegnanti, e anche gli stessi insegnanti in servizio, specie i più giovani, devono sapere che questa tendenza è irreversibile. I decisori politici hanno il dovere di assicurare ad essi una formazione iniziale e continua che consenta loro di convertire e arricchire il proprio profilo professionale con adeguate competenze in campo tecnologico e anche psico-pedagogico, perché il megatrend in atto sposta il baricentro del processo educativo dal docente che insegna all’alunno che apprende. Con i suoi tempi e stili di apprendimento. 

Se i decisori politici (non solo in Italia, ovviamente) non comprenderanno che si è aperta una nuova fase di “distruzione creativa” della vecchia scuola, e tenteranno in qualche modo di rammendare quella vecchia, magari con l’alibi dell’impreparazione/opposizione degli insegnanti e dei sindacati, si avvererà lo scenario più catastrofico tra i quattro previsti dall’OCSE in uno studio avviato ai primi del secolo e che ha avuto recenti implementazioni: quello della esternalizzazione dell’istruzione secondaria superiore e terziaria (ma negli USA l’homeschooling è già pratica diffusa anche a livello di scuola di base, K1-8), da affidare a grandi agenzie online, più rapide e pronte a soddisfare la domanda, che sarà sempre più di competenze considerate essenziali nel futuro mercato del lavoro smart: capacità di imparare, di collaborare e di gestire l’imprevisto, empatia, pensiero critico, resilienza.  

Non è inevitabile però che vada così. Dipenderà dalla saggezza e dalla lungimiranza dei decisori politici se rilanciare il ruolo delle scuole aprendole però alla didattica hybrid, flessibile e personalizzata cui ho accennato in precedenza, una condizione decisiva per la piena inclusione e la valorizzazione di tutte le potenzialità individuali. In tale prospettiva, che è la meno descolarizzante tra le quattro individuate dall’OCSE, le scuole continuerebbero ad avere un ruolo centrale a livello territoriale come principali learning hubs, anche se sarebbero affiancate da sistemi di riconoscimento delle competenze da parte del mercato del lavoro (non dovrebbero, cioè, rilasciare titoli, ma certificare l’acquisizione delle conoscenze e competenze di base).  

Se la scuola non riuscirà ad evolvere rapidamente verso questa nuova dimensione che sarà sempre educativa, ma “postscolastica”, il suo destino è segnato: sarà outsourced (esternalizzata, de-istituzionalizzata) e i nostri nipoti (figli per i più giovani) guarderanno domani i vecchi edifici scolastici con lo stesso sguardo triste con il quale noi guardiamo oggi le fabbriche dismesse.

La formazione iniziale dei docenti nello scenario europeo: diversità, sfide comuni e cautele
Valentina D’Ascanio


Riflettere, oggi, sulla formazione degli insegnanti richiede di porre tale ambito delle politiche educative nel più ampio scenario sovranazionale, la cui analisi può fornire ulteriori lenti per guardare e interpretare le dinamiche e le pressioni che riguardano i sistemi d’istruzione, i quali, pur avendo quale contesto primario il nazionale, risentono e rispondono, in modi peculiari e dissimili, alle influenze presenti nello spazio europeo. Parimenti, un tema tanto delicato e sfaccettato, quale la preparazione dei futuri insegnanti, che chiama in causa un’idea di scuola per e in una società, necessita di uno sguardo plurale al fine di prenderne in esame la costitutiva molteplicità delle implicazioni, dei saperi in gioco e degli attori implicati, mediante un confronto con altre realtà nazionali e con le loro precipue esperienze, soluzioni e prassi. Tale confronto richiede, tuttavia, di non dimenticare che le altre realtà sono una irriducibile alterità che si riverbera nelle prassi educative, nelle finalità attribuite alla scuola e non ultimo nel profilo professionale e nel ruolo dell’insegnante.

Ponendo la formazione dei docenti in una prospettiva sovranazionale, infatti, ciò che appare chiaramente distinguibile è la netta eterogeneità, a livello nazionale e in alcuni casi finanche locale, dei percorsi di formazione, dei requisiti per accedervi, della loro strutturazione e del bilanciamento tra teoria e pratica. Queste e altre rilevanti differenze disegnano, pertanto, un panorama variegato, nonostante le numerose raccomandazioni europee volte a indirizzare gli Stati membri verso interventi riformistici, prospettando uguali soluzioni a uguali problemi: percorsi flessibili e interdisciplinari, revisioni periodiche dei contenuti e dei risultati d’apprendimento, incentivi collegati alla formazione in servizio e agli avanzamenti di carriera rappresentano sono alcune delle misure indicate ai Paesi, al fine di accrescere la preparazione dei docenti e rispondere alle criticità che la professione, oggi, incontra, quali la scarsa attrattività, un innalzamento dell’età dei docenti in servizio, il mismatch territoriale e disciplinare e una prevalenza del genere femminile.

Inoltre, anche quelle che possono dirsi tendenze comuni tra gli Stati, come l’aumento della durata della formazione e l’incremento delle ore di tirocinio, hanno mostrato tempi e modi differenti, in virtù di quello che gli studi comparativi in educazione definiscono filtro nazionale. La formazione degli insegnanti può dirsi ambito nel quale il protagonismo degli Stati è preminente, poiché la figura e il ruolo del docente derivano da un complesso gioco di equilibri, peculiari ai contesti, tra tradizioni culturali e disciplinari, forze e pressioni, non ultimo interessi e richieste. Ciò induce a domandarsi quanto e in che termini sia appropriato parlare di un discorso sovranazionale e se non sia più indicato pensare l’attenzione riservata alla preparazione dei docenti nei termini di uno sguardo vigile ma incapace di fornire un indirizzo comune. Al contempo, lo studio dei diversi iter rende evidente quanto l’atto educativo, con le dicotomie che lo innervano, si radichi nel locale, portando traccia delle idiosincrasie, delle problematicità e delle trasformazioni, per cui qualsivoglia ricerca di soluzioni e prassi esportabili e automaticamente adottabili si rivela un’operazione improvvida, se non sostenuta e guidata da una attenta e ponderata contestualizzazione.


L’importanza di considerare e distinguere il peso di fattori legati alle specifiche realtà trova ampio spazio nelle riflessioni provenienti dagli studi comparativi in educazione, dove la complessità delle relazioni tra piano sovranazionale, nazionale e locale ha alimentato una proficua riformulazione di strumenti concettuali, ereditati da salde tradizioni, alle quale si attinge rinnovandole, come nel caso dell’ambiente italiano, da sempre attento alla prospettiva storico-comparata. Muovendo da tali direzioni di ricerca, la formazione dei docenti è stata oggetto di raffinati studi che ne hanno sottolineato il suo essere una valida prospettiva d’analisi per poter comprendere le trasformazioni dei sistemi d’istruzione e individuarne similarità e differenze; differenze che non possono essere spiegate facendo ricorso solo a indagini statistiche, le quali forniscono una notevole e vasta quantità di dati che, come gli studi comparativi avvertono, rappresentano un primo livello di analisi, da cui non possono esser tratti confronti e ancor meno interventi attuabili e ideali.

Per concludere, ripensare la formazione dei docenti è un’operazione quanto mai urgente, non solo per agire sulle numerose criticità e per porre l’Italia in linea con gli altri Stati europei, ma soprattutto per investire davvero sulla scuola, su chi la vive e quotidianamente la realizza. Un investimento culturale, umano e finanziario.

Formazione insegnanti a distanza? Un’opportunità che apre all’uso delle tecnologie digitali
Angela Spinelli


Ho seguito con profondo interesse il dibattito e la convegnistica promossa, negli anni, dalla SICESE e dalla Fondazione Agnelli sulla formazione degli insegnati.
L’ultimo appuntamento, del marzo di questo anno, è fisiologicamente in dialogo con le rinnovate condizioni in cui la scuola opera a seguito degli stravolgimenti sanitari che hanno influito, e influiscono, sull’organizzazione e sulla didattica. Dopo un anno dal primo lockdown e dalle prime esperienze diffuse di DaD appare quasi pleonastico sottolineare ancora questa condizione, eppure – da qualsiasi punto di vista si guardi la scuola – non se ne può non tener conto. Sappiamo, grazie al contributo di molte ricerche, che la scuola italiana non era dotata di una infrastruttura tecnologica capace di far fronte ad un uso così massiccio della rete e delle tecnologie hardware e software. È anche piuttosto probabile che le tecnologie didattiche digitali non fossero diffusamente percepite come utili ai processi di insegnamento/apprendimento, se non in specifici casi o sperimentazioni e comunque in situazioni circoscritte.
Questa condizione, che appare oggi piuttosto evidente, ha a che fare anche con un’idea di professionalità del docente che può essere oggetto di problematicizzazione proprio in fase di formazione iniziale. Il dibattito tra professione e vocazione è, certo, di lungo corso, e Donatella Palomba ha ben ricordato come il medesimo termine inglese, vocation, non includa nessuna opposizione: significa allo stesso tempo l’una e l’altra. Eppure, nell’immaginario comune italiano, il docente è quanto più autentico, quanto più è spontaneo, incline, non filtrato da artifici professionali, teso a costruire relazioni dirette. Si percepisce ancora la eco del gentiliano “sii uomo e sarai maestro” e di un’avversione a pensare al mestiere di insegnare come ad un’attività mediata per definizione da moltissimi elementi, primi fra tutti quelli didattici e tecnologici, che permettono il dialogo tra i dinamismi dell’insegnamento e quelli dell’apprendimento.
La parola, la scrittura, la stampa hanno mediato per secoli i rapporti insegnanti/allievi, e ora le tecnologie digitali hanno permesso di sanare la distanza fisica necessaria a garantire il diritto alla salute; lo hanno permesso come, da anni, lo permette l’e-learning di qualità nazionale e internazionale.
Insegnare è un mestiere in via di professionalizzazione, come scrisse anni fa Perrenoud, e oggi uno degli elementi che contribuiscono a tale profilo è la capacità di guardare e usare le tecnologie come processi connaturati al trasferimento, all’elaborazione e alla creazione di cultura.
La formazione docenti deve fare i conti, anche, con il ruolo delle tecnologie, in usa società che – per dirla con Rivoltella – è mediatizzata, in cui le tecnologie sono la filigrana delle nostre interazioni con l’ambiente, con gli altri, con la società.
La mediatizzazione sta imprimendo alla società caratteristiche impensabili nella cultura analogica, che hanno il sentore di un cambio paradigmatico; la diffusione di prodotti, tuttavia, non va di pari passo con la curiosità e il rigore necessari a chiedersi come pensarli nello sviluppo della professione docente, il cui ruolo sociale è fuori discussione.
Certamente, la formazione tecnologica iniziale dei docenti è solo un tassello di una trasformazione che necessita di un’azione di sistema più ampia, ma è necessaria per ricomporre alcune fratture che caratterizzano l’agire quotidiano nella scuola e le idiosincrasie percettive rispetto alla mediazione tecnologica.
D’altro canto, anche la formazione in servizio potrebbe trarne giovamento: in particolare se la riflessione sull’innovazione tecnologica fosse situata nella realtà quotidiana, attraverso proposte formative rivolte a gruppi di docenti che co-costruiscono situazioni ed esperienze di apprendimento mediato, da attivare on the job e potendo contare su un meccanismo di supervisione iniziale e -non meno importante – su un sistema organizzativo locale più dinamico e in grado di programmare interventi di medio termine.
Le prospettive individuate durante la Tavola rotonda, evidenziano come il futuro della scuola sia legato alla promozione di un apprendimento diffuso, post-scolastico, che comporta l’opportunità di aprirsi al mondo esterno, ma anche il grande rischio di vedere esternalizzata la funzione della scuola, trasformandola di fatto da istituzione a servizio.

Il governo di questi processi chiama in causa anche chi di formazione insegnanti si occupa: le università possono avere un ruolo importante nella definizione del profilo docente e nel dibattito sull’idea di scuola che – inevitabilmente – lo influenza.
Quale contributo alla riflessione, allora, potrebbe essere utile pensare che le esperienze di didattica digitale per i 24 CFU svolte in questo a.a. siano la base per riprogettare l’offerta formativa dei prossimi anni.
Di tecnologie e di mediazione tecnologica è utile parlare, certo, ma è necessario anche averne esperienza pratica; è necessario vivere ambienti digitali in cui sperimentare i cambiamenti che avvengono sotto il profilo cognitivo, emotivo, relazionale e sociale.
Pensare l’offerta formativa per gli insegnanti inserita in un processo tecnologico è un’opportunità che coniuga esigenze conoscitive e sviluppo di competenze. Sottolineo la dimensione di processo perché una delle obiezioni rivolte all’introduzione di attività mediate è che gli ambienti o i software a disposizione non sono sufficienti ad innescare dei cambiamenti e che le tecnologie, da sole, non bastano a rinnovare pratiche, procedure, interpretazioni professionali e schemi di azione. Ma i processi non sono i prodotti: i secondi sono mutevoli, transitori, in continuo aggiornamento e sviluppo; i primi sostanziano – invece – la riflessione didattico-metodologica e necessitano di tempi più lunghi e riflessioni più radicate nel contesto educativo a cui si rivolgono. D’altra parte, alcuni tentativi istituzionali di introdurre le tecnologie nella scuola hanno fallito anche a causa di questo fraintendimento, che non ha aiutato ad accompagnare l’introduzione tecnica, con il rinnovamento del senso pedagogico e dell’innovazione metodologica.
L’auspicato coinvolgimento di scuola e università per la formazione insegnanti trova un luogo adeguato di co progettazione, conduzione e valutazione nella “dimensione virtuale”, i cui effetti – però – sono straordinariamente pragmatici e reali.